NO SEX WORK

Luciana Tavernini impegnata nelle attività della Libreria delle Donne di Milano (insegna con Marina Santini al master in Studi della differenza sessuale presso l'Università di Barcellona ) ha organizzato e partecipato a incontri per l'abolizione giuridica della prostituzione.

Recentemente ha lanciato un appello cui aderiscono: Marina Santini, Marisa Guarneri, Grazia Villa, Daniela Danna, Nuccia Gatti, Cristina Gramolini, Doranna Lupi, Carla Galetto, Giovanna Palmeto, Laura Modini, Cettina Tiralosi, Gisella Modica, Vanna Chiarabini, Arcilesbica, Adriana Sbrogiò, Antonella Doria, Associazione Melusine Milano, Antonella Prota Giurleo, Francesca Traina, Mirella Maifreda, Paola Cavallari, Associazione La città felice Catania, La Ragna Tela Catania, Anna Turri, Silvana Ferrari, Donatella Massara, Ada Celico, Antonella Nappi per il gruppo donne Difendiamo la salute, Paola Morini, Mariella Pasinati, Biblioteca delle donne e centro di consulenza legale Udi Palermo, Anna Paola Moretti, Antonietta Lelario, Adamaria Rossano, Katia Ricci, Beppe Pavan - Uomini in Cammino e Maschile Plurale, Giannella Sanna, Flavia Piccinelli, Adelaide Baldo, Angela Di Luciano, VandA edizioni, Donatella Franchi, Francesca Pasini, Gabriella Pravatà, Maria Carla Baroni.

Antonella Nappi, collaboratrice di questa rivista, ha chiesto adesioni "pacifiste" all'appello della Tavernini, ritenendole più che doverose, scontate in un'ottica anti-violenza sulle donne. Che ne pensiamo? Fatecelo sapere scrivendo a questa redazione per il tramite di Alfonso Navarra: 

alfiononuke@gmail.com

Ecco sotto riportato un contributo di Antonia Sani, della WILPF Italia, sullo spinoso argomento: tra le ragazze di oggi circola un significato positivo e liberatorio del prostituirsi, associato ad un trasgredire per affermare addirittura un "dominio sul maschio".

Accanto pubblichiamo l'articolo di Luciana Tavernini che propone il dibattito.

________________________________________________

APPUNTI SULLA PROSTITUZIONE (VISTA DALLE RAGAZZE DI OGGI)

di Antonia Baraldi Sani, gia presidente di WILPF ITALIA


(con un commento di Alfonso Navarra sulla libertà non come spazio libero ma come partecipazione. E, come contributo al dibattito, riportiamo la lettera di Maddy Manca: sono femminista e sono sex worker!)

Partiamo da un'analisi del termine - " pro-stituzione". C'è il "pro" che indica "vantaggio", a favore del destinatario ( o destinataria) dell'offerta. La parola di seguito ha origini greco-latine , significa "porre davanti", ossìa, in questo caso, offrire su un piatto d'argento il piacere che l'offerta racchiude. Ma chi fa quest'offerta? E' qui la differenza sostanziale tra "prostituire" e "prostituirsi". Chi offre ragazze (e ragazzi) ricavandone un tornaconto, spesso avendo tratto in inganno giovani in difficoltà economiche o comunque inesperti, costui o costei meritano tutto il nostro disprezzo. La storia che abbiamo alle spalle è millenaria. Riguarda entrambi i sessi, uomini e donne di diversa età, di diversa condizione sociale, di diverse etnie. Liberato il campo dai malviventi, ci troviamo a confrontarci con esseri umani protesi al soddisfacimento di pulsioni personali che nulla hanno a vedere con gli abissi in cui si dibatte il termine "prostituzione". L'appagamento della propria sessualità, ridotto all'essenza, scevro da sovrapposizioni di varia natura, non è diverso dalle soddisfazioni che il nostro corpo e la nostra interiorità ricavano da altre forme di nutrimento. Penso a questo quando mi capita di incontrarmi con giovani donne che vorrebbero legare il proprio rapporto col partner occasionale nella parola "prostituzione liberamente scelta". L'offerta libera del proprio corpo da loro liberamente decisa è la maggiore forma di liberta' da loro auspicata. E qui occorre fare un passo indietro. Bisogna riferirci al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza. Senza fare ritorno agli anni della nostra gioventù, anni di preparazione familiare a un matrimonio da affrontare in stato verginale, credo che ancora oggi non siano poche le mamme tradizionaliste, e in molti casi legate a un'educazione religiosa, che crescono le figlie nel rispetto di regole indiscutibili. Queste mamme sono abbastanza sole in un mondo in cui le libertà più sconvolgenti trionfano. La prima è la ribellione all'educazione familiare ricevuta. Ecco, allora, lo svincolamento, l'affermazione della propria identità nella trasgressione. Sì, la prostituzione è l'atto di più profonda trasgressione per una ragazza; l'offerta di sè a un offerente sconosciuto sul quale far valere il proprio fascino. Non è solo un fatto di compenso, anche se i doni fanno certamente piacere, è un misto di ribellione e di potere su un uomo che in quegli istanti tieni in pugno. Per questo genere di ragazze la parola prostituzione, intesa come "sudditanza coatta", non esiste. Il rapporto è simile a quello delle prostitute, ma diversa è l'essenza, la gestione del rapporto. Varrebbe la pena esaminare i vari aspetti assunti nei secoli nei vari paesi e nei vari strati sociali dall'esercizio della prostituzione rivolto a entrambi i sessi. Da sempre è il prodotto di una cultura patriarcale, la donna usata come oggetto del desiderio, succube come fosse un fatto normale, soprattutto nei paesi dove il dominio del maschio, anche in zone della nostra penisola, continua indisturbato perpetrando femminicidi quando si sente sconfitto. La legalizzazione della prostituzione ( in Germania da un decennio e nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale) doveva offrire garanzie sanitarie a chi il "mestiere" della prostituta lo praticava; in Svezia, Norvegia, Islanda si sta facendo strada un nuovo modello in cui viene punito il "cliente"!!; in Italia la vicenda delle Case Chiuse con la loro abolizione (1958-Legge Merlin) restituiva alle donne che praticavano la prostituzione come mestiere una parvenza di dignità... La legalizzazione , dove avvenuta, a detta di varie testimonianze , non ha portato nessun giovamento alle donne coinvolte. E' logico che sia così, se si pensa che le donne, giovani o meno giovani, si sobbarcano quel mestiere per insicurezza della propria condizione, per difficoltà economiche, per trovare una soluzione alla loro condizione di vita... "Quel mestiere" dovrebbe uscire ovunque dalla legalizzazione..perché non è un mestiere!. Vi sono luoghi di ogni livello ( appartamenti di lusso, catapecchie...) dove donne ( e uomini) si prostituiscono sotto organizzazioni che vi fanno sopra lautissimi guadagni. Vanno denunciati in quanto si consumano abusi sulla dignità della persona. Ma, quante donne rinuncerebbero a guadagni pur percepiti a prezzo di tanta mortificazione? Forse può essere possibile ( anzi, è proprio ciò che avviene da parte di associazioni) una forma di rieducazione...ma a patto di riuscire a trovare subito una attività lavorativa che non le lasci in mezzo a una strada. Grandi sono le differenze in questo settore.Fondamentale è l'uso della propria libertà. Una libertà che induce a una "volontaria prostituzione", caparbia e ostile contro chi condanna ogni rapporto non dettato da un sentimento d'amore. Il termine non va usato - come ripetuto da più parti- come "sudditanza coatta" ma come libera scelta; oltre un atto d'amore, la volontà di affermazione di sé.

________________________________________________

IL COMMENTO DI ALFONSO NAVARRA

CARE Antonia, Luciana, Antonella, ripropongo quanto mi ha suggerito l'interessante discussione sul no sex work che abbiamo sviluppato su google meet*.
Mi pare che occorra approfondire una possibilità di comunicare meglio due concetti, in grado - spero - di supportare simbolicamente una azione più che di sfogo individualistico, "rivoluzionaria", cioè attiva non reattiva, specialmente tra le giovani generazioni portate nelle condizioni culturali odierne ad un generico ribellismo.

1- il separare il lavoro, e soprattutto la sua dignità, dalla sua forma merce, dal legame con il corrispettivo in denaro (anche se credo dovremmo appunto per questo rivendicare un sostegno economico pubblico al "lavoro" di cura domestico e per la coesione sociale, che equivarrebbe al riconoscimento della sua basilare importanza);
2- separare la libertà dalla espressione vuota del "potere fare ciò che (astrattamente) l'individuo vuole". La vera libertà è costruire, nella situazione concreta, la propria libera espressione nell'aumentare il potere della collettività da cui dipende la nostra vita, è partecipazione al POTERE CON, non semplicemente affermazione del POTERE SU... Quindi la libertà nasce dal confronto e dalla relazione paritaria con l'altro e con gli altri: è una opportunità che nasce dal riconoscimento del nostro limite e dell'opportunità costituita dall'altro e dagli altri come limite; e come potenzialità concreta di sviluppo. Da questo punto di vista può funzionare benissimo lo slogan contenuto nella vecchia e famosa canzone di Giorgio Gaber: la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione...

* L'incontro su google meet con Luciana Tavernini si è svolto mercoledì 27 maggio 2020

________________________________________________

https://ombrerosse.noblogs.org/post/2020/05/25/sono-femminista-sono-sex-worker/

Sono femminista, sono sex worker - di Maddy Manca 

Posted on 2020/05/25 by ombrerosse

Scrivo questa lettera aperta a partire dal mio vissuto personale, che ho fatto tanta fatica a raccontare per queste ragioni:

1) Lo stigma: chi lo fa o lo ha fatto in precedenza ti segna a vita

2) Il pregiudizio: vi giudicheranno perché qualsiasi sia stato il motivo della vostra SCELTA, e sottoscrivo questa parola, non siete state abbastanza capaci di trovare un altro lavoro dignitoso.

3) La morale sulla "vendita del corpo", come se negli altri lavori non accadesse.

Il mondo della prostituzione è vasto vi sono tante forme per esercitare: in privato, nel web e nei locali sono le forme più conosciute. Vi è sfruttamento, come giustamente scrivono le/i attivist*, ma in fondo in quale settore lavorativo non c'è?

Io ci sono entrata insieme alla mia coinquilina quando avevo 24 anni e per tre anni è stata la mia attività principale, il salario che mi permetteva di pagare per la mia sussistenza e le spese. Eravamo stufe di farci sfruttare a Roma per pochi euro come cameriere o nei call center o nei supermercati, stufe marce delle manate sul culo nei pub da parte dei proprietari, dei contratti a nero, di essere spremute come limoni infilando 3 lavoretti di merda e dover sottostare al nero degli affitti dei padroni palazzinari. Volevamo tutto e questo lavoro ci ha permesso per tre anni di essere autonome. Certo, abbiamo scelto noi,
ragazze bianche occidentali e istruite nelle scuole con il nostro diplomino utile solo ad essere sfruttate nel precariato. Abbiamo risposto ad un annuncio, ci siamo registrate come ragazze dello spettacolo, il contratto per ragazze di sala e via, è iniziata così. Per tre anni ho vissuto di notte nei locali notturni, la prestazione la stabilivamo fra di noi e sotto una certa cifra non si scendeva: una concertazione fra le stesse lavoratrici, esperienza che ho fatto fatica a trovare fuori, nel mondo diurno, che si definisce moralmente autorizzato a
sfruttare.

Ho lavorato con ragazze che avevano un'alta preparazione scolastica e chi no, ragazze normalissime e soggettività lgbtqia+ (sì, esattamente, riguarda anche noi) e ragazze che venivano da svariati Paesi. Ora la chiamerei sorellanza perché il femminismo mi ha insegnato a trovare le parole, allora la chiamavo complicità. Certo, i primi tempi non sapevo come gestire la situazione con i clienti e cosa fare, chiedevo alle altre come si comportavano, ero impacciata. Se mi trovavo in difficoltà con le ragazze ci scambiavamo i
numeri e quando si era nel locale c'erano dei segnali per interrompere il tavolo e se non potevi farlo qualcuna ti aiutava a toglierti da una situazione poco piacevole. Spesso chi era da più tempo dava consigli alle ragazze appena arrivate e sui clienti. Quando staccavo preferivo non essere sola e spesso uscivo dal locale con un'altra, quando era possibile.

Il moralismo che la nostra società ci inculca ti inibisce finché comprendi che hai consapevolezza di te stessa e. allora, vai come un treno, smonti dall'interno la gerarchia di potere e... vedi come i ruoli possono ribaltarsi. È un lavoro: si offre una prestazione. È a causa deIl moralismo che narra questo lavoro esclusivamente come mercificazione dei corpi che ancora ci ritroviamo nella diatriba tra abolizione e riconoscimento.

In questo testo descrivo la mia esperienza personale che non è uguale per tutt*, ognun* ha un suo vissuto e percezione: chi prende parola lo fa partendo da sé ed ecco perché è violenta la pratica di parlare per conto dei/delle sexworker.

Si possono creare delle solidarietà tra lavoratrici? Sì, è la mia risposta.
Ho versato i miei contributi allo Stato e ciò che più mi fa rabbrividire è che devo nascondere un pezzo della mia vita lavorativa ad altri, l'unico lavoro che io ho scelto. Il resto, infatti, è stato raccogliere ciò che avevo intorno ed essere sfruttata veramente tra capi e capetti che senza autorizzazione esercitano il potere. Questo dovrebbe farci esplodere di rabbia: lo sfruttamento sistematico nella gerarchia di potere. Lavoretti sottopagati, ricatti subiti per un salario di merda ma che ipocritamente accettiamo perché
moralmente sono lavori accettabili, anche se stai vedendo le braccia, la tua vita in balìa del mercato, dove altri decideranno della tua vita... ma troviamo queste scelte più "dignitose". Perché?

È più giusto farsi sfruttare in un qualsiasi lavoro, ma se scelgo di essere sexworker sto vendendo il mio corpo e mi sto facendo sfruttare anche se ho scelto io chi, come, dove quando? È un paradosso grosso quanto un palazzo perché mi sento più sfruttata adesso come lavoratrice che quando facevo sexwork! Lottare per avere diritti sul lavoro è sacrosanto, sia che pulisci i pavimenti, o che tu sia una cassiera, un'operaia in produzione o una cameriera: non ci sono lavoratrici e lavoratori di serie B. Trovo veramente
contraddittoria la questione dello sfruttamento perché c'è chi prende parola sui/sulle sexworker e non si spende minimamente per esprimere indignazione sullo sfruttamento sistemico che avviene tutti i giorni nei luoghi di lavoro.

La prima osservazione che mi hanno sempre fatto quando ho dichiarato di essere stata una sexworker é "lo hai fatto perché sono stata costretta dagli eventi". Sinceramente ho scelto un lavoro che mi dava un salario fra i pochi che c'erano.
- Mi hanno sfruttata?
- No, negli altri lavori invece sì, ed ancora oggi lo sono!
- Perché hai smesso? Evidentemente non reggevi la situazione...
- No! Ho cambiato lavoro come tanti altri!

Dovremmo domandarci invece: perché continuare a trattare da "salvatrici femministe" le/i sexworker? Quali sono invece le loro/nostre richieste? Dovremmo smettere di infantilizzare e cercare sempre i punti deboli delle loro/nostre ragioni o del perché fanno questo lavoro. Sono stata una sexworker e conosco benissimo lo stigma che ci si porta dietro, gli sguardi, i giudizi e pregiudizi.

Essere attivista transfemminista impegnata mi ha dato la forza di uscire fuori e, così come mi batto nelle lotte delle lavoratrici nelle fabbriche, lo faccio con la stessa passione affinché le/i sexworker possano essere riconosciut* come qualsiasi altro settore, a partire dalle loro istanze, dalle pratiche di auto tutela, dai progetti che costruiscono. Negare le loro esistenze significa condannare alla clandestinità ed esporre allo sfruttamento. Si possono costruire dal basso delle reti fra i/le lavoratori/lavoratrici e serve il contributo di alleat*.

Trovo profondamente borghese il perbenismo con cui si blatera delle "altre" vite e delle vite/scelte altrui. Lo scrivo da bianca, occidentale, che ha studiato nelle scuole di un'Europa che sfrutta milioni di migranti per fare i lavori umili e si barrica dietro alle associazioni di donne che firmano documenti contro la prostituzione. Le stesse donne che magari nelle loro case hanno la migrante a fare la domestica o che filano dritto davanti alle addette delle pulizie nei centri commerciali, dove possono fare shopping. Le stesse donne che nelle loro case hanno oggetti prodotti nelle fabbriche da donne sfruttate, che
indossano vestiti prodotti da manodopera straniera sfruttata... ma questo è un altro tema.
Ciò che mi preme è smascherare il discorso stigmatizzante sul sexwork perché distribuisce "valore" diverso ai corpi e alle vite delle persone, per cui alcune sono da "redimere" secondo morale, mentre le altre possono benissimo crepare. Sarebbe infatti troppo scomodo rimettere in discussione il nostro stile di vita occidentale bianco... meglio spostare l'attenzione su chi invece si autodetermina per condannar*.
Appoggiare le/i sexworker in un periodo come questo con un progetto di solidarietà significa non far rimanere nessun* da sol*: questo è ciò che il femminismo insegna. Non potrò contribuire perché la pandemia ha messo anche me in difficoltà finanziarie. Posso però esprimere la mia solidarietà ed il mio sostegno politico-

Un abbraccio,
Maddy Manca

Cosa chiedono i lavoratori del sesso? di ASSOCIAZIONE RADICALE CERTI DIRITTI (aprile 2015)

Una definizione auspicabile di prostituzione:

Per prostituzione si intende la volontaria offerta e/o prestazione, in modo continuativo o saltuario e a fini di lucro, di attività sessuale o erotica svolta individualmente ovvero in forma associata. Essa può essere svolta anche on line attraverso siti web o altri mezzi di comunicazione a ciò dedicati.
La prostituzione, costituisce attività lecita; nessuno può essere costretto a praticarla, né chi la pratica può essere oggetto di discriminazioni.
L'attività di prostituzione non può essere disciplinata da contratto di lavoro subordinato dovendo rimanere contraddistinto il carattere sempre libero e volontario di ogni singola prestazione. Solo esercitata da persone che abbiano la maggiore età.
La prostituzione è consentita nei luoghi dei quali chi la esercita abbia la legale disponibilità; se si intende esercitarla in appartamenti inseriti in contesti condominiali, essa non dovrà essere vietata dal relativo Regolamento. Se si tratta di locali concessi in locazione, il canone non dovrà essere superiore a quello previsto per locali analoghi aventi altre destinazioni. Se si tratta di autoveicoli, gli stessi dovranno sostare in zone consentite.
Lo svolgimento dell'attività di prostituzione è vietato in luoghi pubblici o esposti al pubblico e deve essere impedita la presenza di minorenni, anche se familiari del soggetto che si prostituisce.


Ecco l'articolo da cui facciamo partire la discussione sulla legittimità o meno di assegnare il significato di "lavoro" alla prestazione sessuale dietro un corrispettivo in denaro.

Prostituzione: lavoro o sfruttamento? di Luciana Tavernini

da Il Corriere della Sera - 22 maggio 2020

In questo periodo di pandemia la lobby dell'industria prostitutiva ha cambiato tattica per ripulire questa forma diffusa di sfruttamento. Se prima si insisteva a chiamarla sex work, sottolineandone la "libertà" e i guadagni che ne deriverebbero tramite le tasse per lo Stato, trasformandolo in pappone e quindi ripulendo anche questa figura, ora si insiste sulla condizione di indigenza e precarietà delle donne prostituite per mancanza di "clienti" e proponendo non vie di uscita da questa condizione ma suggerendo che basterebbe riconoscerla come lavoro, per superare qualsiasi problema. Quando un abuso diventa evidente a gran parte dell'opinione pubblica, chi ci guadagna (l'industria prostitutiva è la terza per guadagni illeciti, dopo quelle delle sostanze psicoattive illegali e delle armi) cerca di mascherarlo, cambiandone il nome. Come scrive Julie Bindel in Il mito Pretty Woman (VandA edizioni) - un'inchiesta durata ben due anni con oltre 250 interviste a tutti i tipi di persone coinvolte nell'industria prostitutiva in varie parti del mondo - più di un secolo fa un sostenitore della schiavitù, diceva «Invece di chiamarli schiavi, utilizziamo per i negri il termine assistenti di piantagione, e smetteremo di sentire proteste violente contro il commercio degli schiavi da parte di profeti moralisti, poetesse dal cuore tenero e politici dalla vista corta».

È un'antica tattica che fa presa anche oggi. Come è possibile che, usando parole come sex work, non ci si renda conto di appoggiare e diffondere modalità sessuali patriarcali e posizioni del neoliberismo più sfrenato? Non c'è sesso senza scelta libera del partner (quante battaglie negli ultimi decenni perché si potesse scegliere con chi stare), e neppure senza reciprocità del piacere. Altrimenti è sempre stupro a pagamento, come lo nomina Rachel Moran, una sopravvissuta alla prostituzione nel suo imprescindibile e omonimo libro (Round Robin editore).

Molte donne hanno imparato che non era meno doloroso il sesso senza reciprocità, anche se era legale e lo chiamavano dovere coniugale. Chiamare la prostituzione lavoro è un modo per convincerci che tutto, perfino l'accesso all'interno del nostro corpo, può e deve essere venduto e al massimo possiamo lottare per alzarne il prezzo. È un modo per farci smettere di lottare per la dignità del lavoro. È un vecchio trucco cancellare lo sfruttamento col nome di lavoro. Ci ricordiamo la scritta Arbeit macht frei intrecciata nei cancelli dei campi di concentramento? Serviva a nascondere, non a liberare chi era imprigionato/a e rendeva ancor più difficile uscirne. E per la prostituzione, a conferma di questo, in Germania, come documenta Daniela Danna in Né sesso, né lavoro (VandA edizioni) ci è voluto un parere del Consiglio di Stato nel 2009 per impedire alla tenutaria di un bordello di accedere alle liste di disoccupazione per cercare "lavoratrici", pena la perdita del sussidio, e nel 2003 a Monaco si è dovuto stabilire che una ex moglie nullatenente non fosse costretta a prostituirsi dal marito che non voleva pagarle gli alimenti.

E con sex work che altro si vuole nascondere? Che la grandissima maggioranza di chi è nella prostituzione è composta da donne e quasi nessuna lo fa per scelta. Non è certo libertà di scelta accettare di non usare il preservativo per bisogno di denaro e prendersi l'Aids; non poter fare i lavori per cui si è studiato e che si vorrebbero fare (la sarta e la parrucchiera), come si racconta nelle testimonianze riportate anche da un quotidiano nazionale di sinistra in un articolo che sostiene la decriminalizzazione, altra parola inventata per rendere più facile lo sfruttamento. Si nasconde che la maggior parte è composta da migranti, spesso arrivate in Italia con la tratta.

Chiediamo invece che vengano dati permessi di soggiorno e percorsi per l'inserimento lavorativo a tutte le donne che vogliono uscirne. Finanziamoli. Invece di spendere miliardi per aerei da guerra, attuiamo la legge Merlin, anche nella parte che prevede formazione e inserimento lavorativo. Il militarismo si nutre attraverso l'idea e la possibilità di imporre con la forza, anche del denaro, il proprio volere su chi ti è più vicino. E chi è più vicino di chi è nel letto con te? Decriminalizzare la prostituzione non significa decriminalizzare le prostituite: in Italia la legge Merlin lo fa già, e vieta, coerentemente con la Costituzione, lo sfruttamento della prostituzione altrui precisando le fattispecie di reato ad essa connesse, come ben argomenta la costituzionalista Silvia Niccolai nel già citato Né sesso né lavoro e come ha confermato la Corte Costituzionale con la sentenza del marzo scorso, proprio nel giorno dell'uscita del libro. Decriminalizzare significa invece rendere accettabile l'industria prostitutiva, ad esempio trasformando gli sfruttatori in "manager", le violenze e le malattie sessuali in "rischio sanitario sul lavoro", la capacità di rifiutare clienti e prestazioni indesiderate in "vantaggi lavorativi". Tutto per facilitare l'apertura di bordelli, magari ribattezzati "cooperative di lavoratrici".

In Nuova Zelanda, dove vige la decriminalizzazione, basta un modulo di due facciate per aprirne uno, meno di quello richiesto per prendere un cane dal canile. Un bell'aiuto per la criminalità organizzata. Invece di aiutare le donne che vogliono uscirne, si creano nuove barriere che impediscono di vederne i danni come subire violenza fisica (70%-95%,), gli stupri (60-75%), le molestie (95%) che in un'altra industria avrebbero conseguenze legali, come riferisce il sito Prostitution Research and Education. È spiegabile che molti uomini, quelli che non conoscono l'intensità e la varietà del piacere reciproco nella sessualità libera, preferiscano edulcorare la realtà prostitutiva. Ma perché anche delle donne?
Come è diventato evidente col Me Too l'esperienza delle molestie e dell'incesto, inteso come qualsiasi azione a scopo sessuale fatta su una giovane da un uomo legato in qualche modo alla madre, è diffusissima e crea confusione rispetto al proprio sentire, non solo nelle relazioni sessuali. Dunque alcune preferiscono non vedere. Per altre donne l'esistenza stessa della prostituzione costituisce uno stupro simbolico: per il solo fatto che sei donna, si può violare il tuo corpo; basta avere la forza del denaro e stabilirne un prezzo. Un modo per farti sentire una cosa. Come scriveva Simone Weil, «la forza rende chiunque gli è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell'uomo una cosa nel senso più letterale del termine. Poiché lo rende cadavere».

Ma dall'orrore della reificazione si esce guardando la realtà, dicendola innanzi tutto a se stesse e prendendo parola per dirla pubblicamente.

* Luciana Tavernini impegnata nelle attività della Libreria delle di Milano, insegna con Marina Santini al master in Studi della differenza sessuale presso l'Università di Barcellona il corso di Storia vivente su cui, con altre, ha pubblicato La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (Moretti e Vitali, 2019). Ha scritto saggi su Rosvita di Gandersheim e Cristina di Belgiojso; con Santini una storia del femminismo italiano Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, 2015); con Danna, Niccolai e Villa, Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione (Vandapublishing, 2019). Ha organizzato e partecipato a incontri per l'abolizione della prostituzione. Si occupa di poesia anche con recensioni e incontri.

© 2020 Worlds Collide. Tutti i diritti riservati.
Creato con Webnode
Crea il tuo sito web gratis! Questo sito è stato creato con Webnode. Crea il tuo sito gratuito oggi stesso! Inizia